Rischio in mare aperto

La morte di Fran Crippen ha aperto il dibattito sulle procedure di sicurezza applicate durante le gare in acque libere: due anni dopo la sensazione è che ci sia ancora qualcosa da migliorare

 
di Francesca Galluzzo

 

C’è chi dice che sia colpa del destino, chi di una fatalità, e c’è chi pensa che, invece, basterebbe un po’ di prevenzione per evitare alcune tragedie. Ci sono sport che vengono defniti “estremi” perché, per loro stessa natura, portano colui che li pratica a correre dei rischi elevatissimi e a sottoporsi a sforzi esagerati, e poi ci sono tutti gli altri sport, quelli si fanno per vincere una gara o per migliorare le proprie prestazioni. Si potrebbero defnire, in confronto agli sport estremi, discipline a basso rischio, perché l’incolumità di colui che li pratica non dovrebbe essere messa in pericolo.
Tra questi sport si annovera, o almeno si dovrebbe poter annoverare, il nuoto in acque libere. Rispetto al nuoto da piscina porta con sé, come spiega il nome stesso, la sfida con l’acqua di un bacino aperto, oceano, mare o lago che sia, ma nel corso degli anni un sempre maggior controllo degli atleti in gara ha ridotto notevolmente i pericoli insiti in questa disciplina che, a partire dal 2008, è anche entrata a far parte del programma olimpico. Eppure, nonostante l’applicazione di tutti i sistemi di sicurezza previsti dal regolamento internazionale, non tutto è sempre andato come sarebbe dovuto andare e un errore, una bizza del destino o una fatalità hanno fatto sì che un atleta statunitense perdesse la vita durante una gara di Coppa del Mondo. Siamo a Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti. E’ il 23 ottobre del 2010. In acqua ci sono gli atleti della 10 km. Tra loro c’è Fran Crippen, vincitore della precedente tappa, quella svoltasi a Cancun, in Messico. Come tanti in questa disciplina, ha iniziato la sua carriera in vasca per poi passare all’open water. Il clima è caldo, ma non è questo il problema. Quello che non va è la temperatura dell’acqua, ormai al di sopra dei 30 gradi. La gara viene disputata ugualmente, non c’è nulla nel regolamento che imponga il contrario. Molto atleti riscontrano una certa fatica, ma si va avanti. Arriva la fine e Alex Meyer, uno degli uomini dello staff tecnico della nazionale statunitense, si accorge che Crippen non è arrivato al traguardo. Il mare è calmo, in acqua sono rimaste soltanto le barche, dell’americano non c’è traccia. Cominciano le ricerche e ci vuole quasi un’ora e mezza per riportare a galla il corpo, ormai senza vita, del nuotatore. Il tempo scorre, passa più di un anno, e piano piano questo evento, così come tutti i problemi che ad esso sono connessi, sembra sparire dagli altari della cronaca e finire in una sorta di dimenticatoio. Eppure, per fortuna, le cose non stanno così, perché la tragica fine del nuotatore americano potrebbe rappresentare un punto di partenza nell’ampliamento e nel miglioramento dei sistemi di sicurezza in questa disciplina.
Non era mai successo prima, nessun atleta aveva mai perso la vita durante una gara della FINA, e forse la morte di Crippen è stata solo una fatalità, qualcosa di indipendente da ogni altro fattore esterno. A seguito di questo avvenimento è stata, come da procedura standard, aperta un’inchiesta, al termine della quale è stato stabilito che il nuotatore statunitense è deceduto a causa di un’anomalia cardiaca e a problemi di natura respiratoria. Nonostante non sia mai stata provata una reale responsabilità da parte della FINA o di altri organismi competenti, la morte di Crippen ha aperto il dibattito sulla spinosa questione della sicurezza degli atleti durante le gare di open water. Atleti, tecnici e organismi internazionali si sono espressi, nel corso dell’ultimo anno, su quello che è uno dei punti chiave attorno a cui ruota tutto il discorso, il problema legato alla temperatura massima dell’acqua. Se, infatti, il regolamento internazionale prevede che “la temperatura dell’acqua deve essere come minimo a 16 gradi. La misurazione deve essere effettuata il giorno della gara, due ore prima della partenza, alla metà del percorso ad una profondità di 40 centimetri”, la stessa specificità non è dedicata al problema della temperatura massima, a cui non viene fatto alcun riferimento all’interno del regolamento ufficiale. «La questione della temperatura alta dell’acqua non è nuova e non si è di certo presentata per la prima volta in occasione della tragica scomparsa di Fran Crippen - aveva spiegato Massimo Giuliani, commissario tecnico della Nazionale italiana di fondo -, ma di sicuro quello che è successo ha fatto sì che si iniziasse seriamente a pensare di cambiare il regolamento in funzione di garantire una maggiore sicurezza agli atleti che scendono in acqua durante una competizione. In questo caso è necessario che ad agire sia la Federazione Internazionale perché quello che occorre è un mutamento sostanziale». La gara in cui perse la vita Fran Crippen fu vinta dal campionissimo tedesco Thomas Lurz, che interpellato in proposito a quelle che secondo lui sono state le conseguenze della morte di Crippen, ha spiegato che «alcune cose sono cambiate dopo quel tragico evento. Adesso ci sono più barche al seguito degli atleti e questo non può che portare ad una maggiore sicurezza, in più è aumentato anche il materiale di supporto. Sfortunatamente non è ancora stato fatto nulla di concreto per quello che riguarda i limiti della temperatura dell’acqua, ma sono fiducioso sul fatto che in futuro verrà fatto qualcosa anche da questo punto di vista. In sintesi credo che l’incidente di Crippen possa in qualche modo considerarsi un punto di partenza per cambiare le cose che non vanno». Le perplessità, insomma, rimangono, e nonostante tutti i discorsi che sono stati fatti nel corso del tempo, per il momento sono stati presi soltanto provvedimenti provvisori e da un certo punto di vista palliativi, ma ancora insufficienti per risolvere il problema della sicurezza degli atleti nell’open water, un problema che può vantare una lunga storia e che, negli anni Sessanta, aveva addirittura portato alla sospensione delle gare di acque libere in Italia dopo la morte di un giovane nuotatore durante una competizione nel Lago di Iseo. Va comunque specificato che, rispetto alle fasi iniziali di questa disciplina, al giorno d’oggi l’atleta è molto più tutelato, e a raccontarlo è una delle più rappresentative atlete dell’open water italiano, Giorgia Consiglio. Reduce dai problemi riscontrati durante i campionati Mondiali di Shanghai, Giorgia ha spiegato come nel suo caso i soccorsi fossero stati assolutamente tempestivi. «Nel momento in cui ho sentito che stavo per andare sotto ho alzato il braccio e sono stata immediatamente tirata fuori dall’acqua, per cui se penso alla mia esperienza personale posso solo dire bene delle misure di sicurezza adottate durante le competizioni internazionali, ma ciò non toglie che ciò che è accaduto all’americano è qualcosa di inspiegabile. Ricordo che il primo pensiero dopo aver appreso la notizia, non era stato tanto legato al come Crippen potesse aver avuto un malore, ma al fatto che nessuno se ne fosse accorto fin dopo la fine della gara. E’ ancora plausibile che nessun atleta se ne sia reso conto perché se durante una gara non stai nuotando all’interno di un gruppetto è difficile che qualche altro concorrente si accorga di dove sei, ma non riesco a capire come nessuno, dalle barche, abbia capito quello che stava succedendo. Si trattava di una gara di Coppa del Mondo, le misure di sicurezza avrebbero dovuto essere le migliori possibili, eppure nessuno durante la competizione si è accorto che mancava uno degli atleti, nemmeno i tecnici e gli accompagnatori americani che stavano sulle barche». Un insieme di circostanze sfortunate, una fine che forse ci sarebbe stata anche se le regole fossero state diverse, se in acqua ci fossero state più barche o se la temperatura del campo gara fosse stata inferiore, ma ciò non toglie che tragedie come quella di Crippen vanno tenute sempre a mente, nonostante il tempo passi, per ricordarsi che il nuoto in acque libere è, e continuerà a rimanere, una sfida con il mare aperto, uno sport per molti versi affascinante e per altri pericoloso, i cui rischi si possono ridurre con dei miglioramenti nei regolamenti e nelle misure di sicurezza, ma che rimangono insiti nella sua natura e non si possono mai del tutto eliminare.

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