C’è chi dice che sia colpa del destino,
chi di una fatalità, e c’è chi pensa
che, invece, basterebbe un po’ di
prevenzione per evitare alcune tragedie.
Ci sono sport che vengono defniti
“estremi” perché, per loro stessa
natura, portano colui che li pratica a
correre dei rischi elevatissimi e a
sottoporsi a sforzi esagerati, e poi ci
sono tutti gli altri sport, quelli si
fanno per vincere una gara o per
migliorare le proprie prestazioni. Si
potrebbero defnire, in confronto agli
sport estremi, discipline a basso
rischio, perché l’incolumità di colui
che li pratica non dovrebbe essere messa
in pericolo.
Tra questi sport si annovera, o almeno
si dovrebbe poter annoverare, il nuoto
in acque libere. Rispetto al nuoto da
piscina porta con sé, come spiega il
nome stesso, la sfida con l’acqua di un
bacino aperto, oceano, mare o lago che
sia, ma nel corso degli anni un sempre
maggior controllo degli atleti in gara
ha ridotto notevolmente i pericoli
insiti in questa disciplina che, a
partire dal 2008, è anche entrata a far
parte del programma olimpico. Eppure,
nonostante l’applicazione di tutti i
sistemi di sicurezza previsti dal
regolamento internazionale, non tutto è
sempre andato come sarebbe dovuto andare
e un errore, una bizza del destino o una
fatalità hanno fatto sì che un atleta
statunitense perdesse la vita durante
una gara di Coppa del Mondo. Siamo a
Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti. E’
il 23 ottobre del 2010. In acqua ci sono
gli atleti della 10 km. Tra loro c’è
Fran Crippen, vincitore della precedente
tappa, quella svoltasi a Cancun, in
Messico. Come tanti in questa
disciplina, ha iniziato la sua carriera
in vasca per poi passare all’open water.
Il clima è caldo, ma non è questo il
problema. Quello che non va è la
temperatura dell’acqua, ormai al di
sopra dei 30 gradi. La gara viene
disputata ugualmente, non c’è nulla nel
regolamento che imponga il contrario.
Molto atleti riscontrano una certa
fatica, ma si va avanti. Arriva la fine
e Alex Meyer, uno degli uomini dello
staff tecnico della nazionale
statunitense, si accorge che Crippen non
è arrivato al traguardo. Il mare è
calmo, in acqua sono rimaste soltanto le
barche, dell’americano non c’è traccia.
Cominciano le ricerche e ci vuole quasi
un’ora e mezza per riportare a galla il
corpo, ormai senza vita, del nuotatore.
Il tempo scorre, passa più di un anno, e
piano piano questo evento, così come
tutti i problemi che ad esso sono
connessi, sembra sparire dagli altari
della cronaca e finire in una sorta di
dimenticatoio. Eppure, per fortuna, le
cose non stanno così, perché la tragica
fine del nuotatore americano potrebbe
rappresentare un punto di partenza
nell’ampliamento e nel miglioramento dei
sistemi di sicurezza in questa
disciplina.
Non era mai successo prima, nessun
atleta aveva mai perso la vita durante
una gara della FINA, e forse la morte di
Crippen è stata solo una fatalità,
qualcosa di indipendente da ogni altro
fattore esterno. A seguito di questo
avvenimento è stata, come da procedura
standard, aperta un’inchiesta, al
termine della quale è stato stabilito
che il nuotatore statunitense è deceduto
a causa di un’anomalia cardiaca e a
problemi di natura respiratoria.
Nonostante non sia mai stata provata una
reale responsabilità da parte della FINA
o di altri organismi competenti, la
morte di Crippen ha aperto il dibattito
sulla spinosa questione della sicurezza
degli atleti durante le gare di open
water. Atleti, tecnici e organismi
internazionali si sono espressi, nel
corso dell’ultimo anno, su quello che è
uno dei punti chiave attorno a cui ruota
tutto il discorso, il problema legato
alla temperatura massima dell’acqua. Se,
infatti, il regolamento internazionale
prevede che “la temperatura dell’acqua
deve essere come minimo a 16 gradi. La
misurazione deve essere effettuata il
giorno della gara, due ore prima della
partenza, alla metà del percorso ad una
profondità di 40 centimetri”, la stessa
specificità non è dedicata al problema
della temperatura massima, a cui non
viene fatto alcun riferimento
all’interno del regolamento ufficiale.
«La questione della temperatura alta
dell’acqua non è nuova e non si è di
certo presentata per la prima volta in
occasione della tragica scomparsa di
Fran Crippen - aveva spiegato Massimo
Giuliani, commissario tecnico della
Nazionale italiana di fondo -, ma di
sicuro quello che è successo ha fatto sì
che si iniziasse seriamente a pensare di
cambiare il regolamento in funzione di
garantire una maggiore sicurezza agli
atleti che scendono in acqua durante una
competizione. In questo caso è
necessario che ad agire sia la
Federazione Internazionale perché quello
che occorre è un mutamento sostanziale».
La gara in cui perse la vita Fran
Crippen fu vinta dal campionissimo
tedesco Thomas Lurz, che interpellato in
proposito a quelle che secondo lui sono
state le conseguenze della morte di
Crippen, ha spiegato che «alcune cose
sono cambiate dopo quel tragico evento.
Adesso ci sono più barche al seguito
degli atleti e questo non può che
portare ad una maggiore sicurezza, in
più è aumentato anche il materiale di
supporto. Sfortunatamente non è ancora
stato fatto nulla di concreto per quello
che riguarda i limiti della temperatura
dell’acqua, ma sono fiducioso sul fatto
che in futuro verrà fatto qualcosa anche
da questo punto di vista. In sintesi
credo che l’incidente di Crippen possa
in qualche modo considerarsi un punto di
partenza per cambiare le cose che non
vanno». Le perplessità, insomma,
rimangono, e nonostante tutti i discorsi
che sono stati fatti nel corso del
tempo, per il momento sono stati presi
soltanto provvedimenti provvisori e da
un certo punto di vista palliativi, ma
ancora insufficienti per risolvere il
problema della sicurezza degli atleti
nell’open water, un problema che può
vantare una lunga storia e che, negli
anni Sessanta, aveva addirittura portato
alla sospensione delle gare di acque
libere in Italia dopo la morte di un
giovane nuotatore durante una
competizione nel Lago di Iseo. Va
comunque specificato che, rispetto alle
fasi iniziali di questa disciplina, al
giorno d’oggi l’atleta è molto più
tutelato, e a raccontarlo è una delle
più rappresentative atlete dell’open
water italiano, Giorgia Consiglio.
Reduce dai problemi riscontrati durante
i campionati Mondiali di Shanghai,
Giorgia ha spiegato come nel suo caso i
soccorsi fossero stati assolutamente
tempestivi. «Nel momento in cui ho
sentito che stavo per andare sotto ho
alzato il braccio e sono stata
immediatamente tirata fuori dall’acqua,
per cui se penso alla mia esperienza
personale posso solo dire bene delle
misure di sicurezza adottate durante le
competizioni internazionali, ma ciò non
toglie che ciò che è accaduto
all’americano è qualcosa di
inspiegabile. Ricordo che il primo
pensiero dopo aver appreso la notizia,
non era stato tanto legato al come
Crippen potesse aver avuto un malore, ma
al fatto che nessuno se ne fosse accorto
fin dopo la fine della gara. E’ ancora
plausibile che nessun atleta se ne sia
reso conto perché se durante una gara
non stai nuotando all’interno di un
gruppetto è difficile che qualche altro
concorrente si accorga di dove sei, ma
non riesco a capire come nessuno, dalle
barche, abbia capito quello che stava
succedendo. Si trattava di una gara di
Coppa del Mondo, le misure di sicurezza
avrebbero dovuto essere le migliori
possibili, eppure nessuno durante la
competizione si è accorto che mancava
uno degli atleti, nemmeno i tecnici e
gli accompagnatori americani che stavano
sulle barche». Un insieme di circostanze
sfortunate, una fine che forse ci
sarebbe stata anche se le regole fossero
state diverse, se in acqua ci fossero
state più barche o se la temperatura del
campo gara fosse stata inferiore, ma ciò
non toglie che tragedie come quella di
Crippen vanno tenute sempre a mente,
nonostante il tempo passi, per
ricordarsi che il nuoto in acque libere
è, e continuerà a rimanere, una sfida
con il mare aperto, uno sport per molti
versi affascinante e per altri
pericoloso, i cui rischi si possono
ridurre con dei miglioramenti nei
regolamenti e nelle misure di sicurezza,
ma che rimangono insiti nella sua natura
e non si possono mai del tutto
eliminare. |